Alfredo Ascani // L’ironica amarezza di Monsieur Beyle

L’ironica amarezza di Monsieur Beyle

Stendhal, non fu mai riconosciuto per le sue qualità letterarie; dai suoi contemporanei, era semplicemente Monsieur Beyle, ex ufficiale napoleonico, la Francia di quell’epoca ne era colma, e forse proprio questa moltitudine di scontenti e dimessi senza speranze, oscurò le sue indubbie qualità, il biglietto da visita che M. Beyle presentava non era per la Francia carlista, gradito, così anche per il suo indovinato pseudonimo.

L’epoca in cui Stendhal operò letterariamente fu dominata dal tentativo di restaurare il predominio dell’aristocrazia, Carlo X regnante ne fu convinto sostenitore. Carlo X fu un intransigente, tentò in ogni modo di far dimenticare ai francesi le glorie napoleoniche. Monsieur Beyle ne doveva inevitabilmente far parte. Carlo X regnò in Francia dal 1824 all’agosto del 1830, dove in seguito ad una sommossa nata fra le sue stesse file fu costretto ad abdicare. Convinto legittimista reazionario, dovette dar motivi creativi a Stendhal, poiché il suo capolavoro letterario, purtroppo mancante della parte finale, è ambientato negli anni dal 1831 al 1836 forse. Stendhal non ci fornisce molte indicazioni, la materia era così scottante per lui che le riteneva superflue. Non credo dobbiamo meravigliarci, quando l’autore vive personalmente alcune vicende è estremamente logico: per lui non trattare le date, le sente tatuate sulla sua pelle.

Il rosso e il bianco. E’ il suo ignorato capolavoro, il sottotitolo è Luciano Leuwen.

Nel 1836 Stendhal torna in Francia, ormai stanco e malmesso, dopo pochi anni morirà, era il 1842, letterariamente ignorato.

Le affinità di Stendhal con Luciano Leuwen sono molte: ambedue scacciati escono dal Politecnico, ambedue sono sottotenenti nell’esercito, Leuwen nei lancieri, Stendhal nei dragoni, ambedue provenienti da ricche famiglie, Leuwen è figlio di un banchiere, entrambi simpatici generosi ingenui sognatori.

L’esperienza di Stendhal nell’esercito non fu breve, basti ricordare che nel 1812 era in Russia con Napoleone. Quella fu la sua ultima esperienza militare, poiché dal 1814 al 1821 visse a Milano, considerandola sua patria di adozione. Le similitudini con il suo personaggio Leuwen continuano, quando entrambi per ragioni economiche chiederanno un posto nel mondo diplomatico in Italia, ambedue avranno difficoltà sentimentali.

Torniamo per poco alle amarezze letterarie di Stendhal.

Nel 1823 pubblica in due volumi una Vita di Rossini, che Berlioz giudicò di una irritante imbecillità. Questo giudizio così tagliente dovette certamente pesare sulle fortune di Stendhal. Probabilmente Berlioz, da profondo conoscitore quale era della musica, aveva ragione, Stendhal con la sua generosità grafica, non credo conoscesse i particolari interiori di un musicista quale era Rossini, il sottotenente dei dragoni vide forse solo l’impeto delle cariche di cavalleria nei crescendo rossiniani. Fu certamente un suo grossolano errore, intromettersi in temi così specifici che certamente non poteva conoscere.

Tutti sanno che la produttività letteraria di Stendhal fu enorme, ricordando che tutti i suoi lavori erano normalmente di centinaia e centinaia di pagine. Penso che dobbiamo perdonargli la licenza rossiniana, però così non fece Berlioz, e forse quelle sue righe, o frasi dette in un salotto decretarono l’oscurità che iniziò ad avvolgerlo.

Sempre nel 1836 Stendhal scriveva i suoi tragici ironici testamenti, che nel susseguirsi del tempo dovevano rivelarsi drammaticamente veritieri: "Lascio la mia ultima opera a qualche generoso editore che la pubblichi a cinque anni dal mio decesso, oppure a Filante Charles, se costui non adempie, a Enrico Fournier in via della Senna, ancora in caso di inadempienza al libraio Delannay, per ultimo al più anziano dei librai londinesi e il cui nome cominci per C."

Quanta ironia beffarda in queste sue righe testamentarie.

Ricordo per inciso che oltre al "Luciano Leuwen" anche la Vanina Vanini era un romanzo incompleto. Nelle sue tragicomiche righe testamentarie, Stendhal non spiega quale opera lasciasse, mette però delle date, in cui egli presume sarà finalmente letto ed apprezzato,se non sbaglio "1880, o peggio nel 1900, ma il vero mio estimatore sarà il lettore del 1935."

In ogni caso il primo volume dell’opera Il rosso e il bianco fu edito con il titolo Il cacciatore verde fra le Novelle inedite da Michel Levy nel 1855, poi una lunga attesa, nel 1894 l’editore Jean De Mitty lo pubblica in una stesura fortemente ridimensionata, che ebbe scarso successo.

Stendhal in merito al titolo ebbe numerosi ripensamenti, il primo fu Il cacciatore verde prendeva il nome dal caffè che i personaggi del romanzo amavano frequentare a Nancy, poi Il bosco di Premol, poi L’arancio di Malta; in verità un titolo assai strano, poi L’amaranto e il nero poi Luciano Leuwen o l’allievo espulso dal Politecnico finalmente si decise per l’attuale titolo, Il rosso e il bianco con il sottotitolo di Luciano Leuwen. Un parallelismo indovinato con l’altro suo riuscito romanzo che narra la storia del giovane plebeo Julien Sorel che non è del tutto antitetico a Luciano Leuwen, certo uno povero l’altro ricchissimo, però sono un pendant perfetto.

Il volume che il sottoscritto ha avuto la fortuna di trovare fu edito nel 1930 dai fratelli Treves di Milano, con la traduzione preziosa ed estremamente qualificata di Corrado Pavolini.

Scrive il Pavolini: "La spiegazione poi dei due colori è ovvia: è quel contrasto tra l’ingenuo e generoso repubblicanesimo nascente e la boria impotente dei legittimisti spodestati, che sul punto storico d’incrocio della frigida monarchia di luglio forma lo sfondo politico dell’opera."

Ho desiderato riportare per intero l’analisi dei colori del Pavolini, perché oggi a distanza di ormai di decine e decine di anni, non sarebbe facile da capire per il lettore odierno, le motivazioni politiche che dettarono a Stendhal la scelta dei titoli.

Poiché vedo nell’opera di Stendhal essenzialmente letteratura politica: l’autore continua la sua battaglia facendo parlare operare soffrire i suoi personaggi tenendo viva la rivoluzione che si vuole soffocare e certamente dimenticare, invece "Lei" continua ad esprimersi tramite i Jean Sorel e i Luciano Leuwen, anche se quest’ultimo, oggi potrebbe essere definito un radical chic.

Certamente Stendhal, era un fedele ufficiale napoleonico ,ma fu anche un figlio non smemorato della rivoluzione. I suoi personaggi vivono questa sua ansia di rinnovamento sociale, di abbattimento di steccati di classi, di privilegi.

Chi vede nelle sue storie solo sdolcinati amori, non ha capito l’opera incredibilmente sovvertitrice di Stendhal, un uomo che aveva respirato ; anche se un ragazzo, e sentito il forte l’impeto di rinnovamento del 1789. Chi ha vissuto quell’epoca, cresceva convinto dei valori umani per cui combattere e un sottotenente dei dragoni non si sarebbe mai sottratto a tale battaglia.

A far da controcanto alla mia analisi è la prefazione di Stendhal, al suo primo volume, una pagina che desidero riportare per intero:
"C’era una volta un uomo con la febbre che aveva preso della china. Aveva ancora il bicchiere in mano e faceva le boccacce per l’amaro; si guardò nello specchio e si vide pallido, quasi livido. Lasciò andare il bicchiere e si buttò sullo specchio per romperlo. Tale sarà la sorte dei volumi che seguono.
Sventuratamente non vi si racconta un fatto accaduto un secolo addietro; i personaggi sono contemporanei; se non sbaglio due o tre anni fa erano ancora vivi.
E’ colpa dell’autore se alcuni di essi sono legittimisti decisi e altri parlano come dei repubblicani? L’autore sarà accusato di essere tutto in una volta legittimista e repubblicano?
A dire il vero ( costretto com’è per timore di peggio a fare una confessione così seria), l’autore sarebbe disperato di dover vivere sotto il governo di New York. Preferisce far la corte a Guizot piuttosto che farla al proprio calzolaio. Nel diciannovesimo secolo la democrazia porta seco di necessità il regno dei mediocri, dei ragionevoli, dei meschini e dei banali, letterariamente parlando."

Non dobbiamo fraintendere questa sua prefazione, essa fu scritta quando era probabilmente console a Civitavecchia, sono le righe di un uomo profondamente amareggiato, senza interlocutori, sappiamo bene cosa fosse l’ambiente romano papalino, ce lo ricorda Leopardi che visse lo stesso problema a Roma. La solitudine intellettuale può essere vissuta drammaticamente, se non c’è una forte ideologia a sostenerla, quella di Stendhal in quel periodo storico era indiscutibilmente perdente. Inoltre certamente desiderava far comprendere come la figura di Luciano Leuwen fosse complessa e controversa.

Anche se oggi, il quesito di Stendhal lo ritengo ancora valido, vedendo la massa enorme di pubblicazioni che invadono le librerie senza discernimento o vaglio di nessuna sorta.

Sì, il personaggio Leuwen è contraddittorio, riceve un rimprovero dal suo colonnello per il numero troppo elevato di camerieri che ha assunto, notate non perché gli fossero necessari, ma per affermarsi nell’aristocrazia provinciale di Nancy, ed anche per far colpo su di una Signora. Però lo stesso personaggio entra in grande pena per essere costretto a cavalcare contro gli operai tessili di un villaggio vicino, fortunatamente lo scontro tra gli operai e i lancieri che comanda non accadrà.
Leuwen impersona sostanzialmente quello che avrebbe desiderato essere Stendhal, un uomo tanto ricco da poter decidere delle proprie azioni. Leuwen con la sua ricchezza nel primo volume ci riesce, Stendhal non ci riuscirà mai, nel suo cuore era repubblicano, ma il suo stipendio era pagato dai legittimisti, e ciò era determinante e a mio avviso rende più chiara la sua prefazione.
E’ difficile combattere una battaglia politica con le sole armi dell’ironia e dell’intelligenza, Stendhal lo seppe fare, anzi i suoi personaggi seguirono il corso della storia, poiché i fatti che ci narrano sono sicuramente scritti sulle Gazzette dell’epoca, nulla è inventato. Il nostro diviene un cronista, che effettua del vero giornalismo!
Questo si capirà meglio quando Stendhal scrive la prefazione al secondo volume la satira è così ben fatta che sembra di leggere un articolo di Travaglio, anche questa prefazione desidero riportarla per intero, non può essere assolutamente tagliata:
"Lettore benevolo,
ora siamo a Parigi bisognerà che io faccia un grande sforzo per non cadere in qualche accenno personale.
Non che la satira non mi piaccia un mondo; ma se facessi convergere gli sguardi dei lettori sulla faccia ridicola di qualche ministro, accadrebbe che i lettori si distrarrebbero dall’interesse che voglio invece inspirar loro per gli altri personaggi. Così la satira personale, che in se stessa è una cosa molto divertente, purtroppo non giova al racconto della mia storia.
La caricatura è deliziosa quando è vera e non è forzata; ora, lo spettacolo a cui assistiamo da venti anni sembra fatto apposta per levarci la tentazione di farne la caricatura.
“Che sbaglio,” diceva Montesquieu, “ mettere in ridicolo l’inquisizione!"
Ai giorni nostri avrebbe detto: “ Che mai potrebbe aggiungere un umorista a quella smodata sete di guadagno, a quella paura di perdere il posto e a quella smania d’indovinare il capriccio del padrone, che informano gli ipocriti discorsi di tutti quelli che si pappano più di cinquantamila franchi sul bilancio.
Io stimo che al di sopra dei cinquantamila franchi la vita privata non possa più pretendere di essere nascosta.
Ma la satira dei privilegiati del bilancio non rientra nei miei piani.
Anche l’aceto è una cosa eccellente, ma mescolato con la crema rovina tutto.
Ho fatto quanto era in me per impedirti di riconoscere, lettore benevolo, un certo ministro di questi ultimi anni che volle giuocare un brutto tiro a Luciano.
Come ti saresti divertito a vedere da vicino che codesto ministro era un ladro, faceva l’insolente per paura di perdere il posto, e non si lasciava uscir di bocca una parola che non fosse menzogna!
Non conobbe mai sentimenti appena appena elevati; perché al solo guardargli dentro l’anima ti verrebbe il disgusto, lettore benevolo, e il disgusto crescerebbe s’io dovessi lasciarti indovinare di quali tratti ignobili e sdolcinati s’ammantava quell’anima banale.
Un uomo come quello, è anche troppo vederlo quando gli si è dovuto chiedere udienza.

Non ragionar di lor, ma guarda e passa."

Così termina la prefazione di Stendhal al secondo volume de Il rosso e il bianco. Adesso mi rivolgo io al mio benevolo lettore, dichiarando che non ho modificato una virgola nel testo di Stendhal e che l’attualità di un testo scritto negli anni subito dopo il 1831, risulta semplicemente sconvolgente.

Ecco, ritengo comprovata la mia conclusione sulla letteratura politica di Stendhal.

Il vecchio combattente si è con intelligenza lanciato in una carica e noi uomini del 2010 lo abbiamo seguito: tu profetizzavi che saresti stato letto nel 1935, questa volta la tua profezia non si è avverata, molti decenni sono trascorsi da quella tua data, ma come vedi non sei più solo nella battaglia, il tuo plotone di dragoni è diventato uno squadrone, poiché quel tipo di politicante ; da te così ben descritto, non è ancora stato del tutto sconfitto, è ancora presente, per tale ragione ordina ancora la carica, che noi ti seguiremo!


Roma, 28 luglio 2010